venerdì 9 febbraio 2007

Carosello trent'anni dopo


Nell’era della comunicazione globalizzata, molti comportamenti cosiddetti standard sono indotti proprio dalla pubblicità. La quale non si limita a vantare i pregi di una merce, ma suggerisce stili di vita che non si possono adottare senza l’uso quotidiano di determinati prodotti. In Italia, la propaganda commerciale, che fino agli anni ’40 era essenzialmente composta da affissioni murali e da inserzioni sui giornali, sin dagli inizi del novecento aveva reclutato dei veri e propri maestri della grafica pubblicitaria – da Leonetto Cappiello a Marcello Dudovich e Fortunato Depero – e, nei suoi successi maggiori, aveva invitato un pubblico assai ristretto all’acquisto di beni selezionatissimi: si trattava di sartorie, case automobilistiche e ditte di liquori alle quali i ‘maestri’ sopra citati offrivano tavole ridondanti di dame elegantissime, di militari in ‘drop’ da serata di gala, di signori in frac e cappello a cilindro. Accanto a quelle pagine d’autore, però, nella ‘Domenica del Corriere’ trovavano ospitalità anche messaggi che sollecitavano il consumatore ‘povero’ a combattere gli stenti di una vita aspra con dei callifughi, delle tisane rinfrescanti, delle polveri contro il mal di schiena e degli unguenti contro i geloni. I ‘tamburini’ di questo genere racchiudevano, insomma, la vera ‘Italia preindustriale’, con la sua austerità obbligatoria e i suoi frugali divertimenti (il panettone Motta, il liquore Strega, il formaggino Mio). Tutto ciò cambiò improvvisamente sul finire degli anni ’50, con l’avvento della televisione e delle grandi agenzie pubblicitarie (la Thompson, la Lintas, la Yuong and Rubicam) le quali iniziarono ad applicare alla pubblicità commerciale una vera e propria scienza della comunicazione. I messaggi divennero, infatti, sottilmente ricattatori, sorretti da analisi di psicologia sociale che scandagliavano nel profondo le aspettative degli italiani: chi non usava un certo detersivo rischiava di venir considerato un individuo poco pulito; chi non si prendeva una pausa mangiando un certo genere di biscotti non poteva reggere i ritmi frenetici di una giornata di lavoro; chi non beveva un brandy “che creava un’atmosfera” andava senz’altro incorno a disastrose disavventure amorose. Ma proprio nel momento in cui si stava rischiando un appiattimento tutto italiano ai modelli propagandistici americani, il 3 febbraio 1957 si aprì una nostra inaspettata ‘via nazionale’ alla pubblicità grazie alla nascita di ‘Carosello’, un breve programma televisivo di cui i semiologi di casa nostra si innamorarono perdutamente. In pratica, per fare in modo che la promozione commerciale potesse avere accesso alla fascia massima di ascolto, la Rai decise di chiedere alle ditte interessate di mandare in onda uno ‘spettacolino’ di 155 secondi totalmente scevro da ogni riferimento alla réclame, per poi comprimere in un ‘codino finale’ di soli 35 secondi l’illustrazione del prodotto che si voleva proporre al largo consumo. Si trattò, in sostanza, della ‘salvezza dell’anima non commerciale’ della nostra televisione di servizio. Un’anima che, tuttavia, era ‘bicipite’, poiché da una parte faceva la guardia ai privilegi di quella parte di ceto politico che aveva l’esclusivo controllo sulla Rai e non intendeva in nessun modo essere condizionata, mentre dall’altra continuava a garantire una tradizione culturale accademica e ‘schifiltosa’, che accantonava tutto ciò che non avesse un’ispirazione ‘alta’. Dato un simile contesto, l’inserimento della pubblicità nel nostro palinsesto televisivo finì con il dover obbedire a criteri di particolare cautela. Ed il criterio principale che permise ad una Rai partitica e colta di ‘sporcarsi le mani’ con quella cosa puramente mercantile chiamata pubblicità, si tradusse in una programmazione degli annunci nell’ambito di una rubrica appositamente riservata, allo scopo di assicurare loro la massima efficacia senza interferire con le normali trasmissioni. Tuttavia, quando determinati ‘binari’ vengono fissati in una maniera troppo rigida, si finisce con lo stuzzicare l’intelligenza e la fantasia degli ‘artisti’ che, di volta in volta, venivano chiamati non solo a realizzare delle storielle originali, ma anche e soprattutto ad inventare un raccordo coerente con il ‘codino’ pubblicitario, in modo da non isolarlo totalmente in un messaggio melenso o poco comprensibile. Ecco, dunque, la descrizione storica su come nacque ‘Carosello’: chi non ricorda con nostalgia le deliziose gemelle Kessler che danzavano inguainate nelle calze Omsa? O lo spietato Ubaldo Lai – devo questa ‘rimembranza’ a Bobo Craxi, l’unico che ha saputo ricordare, in una giornata di accese discussioni alla Camera dei Deputati, il nome del grande attore che interpretava il ‘duro’ Tenente Sheridan – che tracannava il suo vigoroso Biancosarti? E il piccolo pulcino Calimero, che ridiventava bianco allorquando veniva immerso nella schiuma del detersivo Ava, dove lo mettiamo? E l’infallibile ispettore Rock, un poliziotto completamente calvo che non aveva mai commesso errori in vita sua, tranne quello di non spalmarsi in testa la brillantina Linetti? Indimenticabile. Non sempre la ‘fusione’ tra intrattenimento e proposta pubblicitaria riusciva perfettamente: a volte, quanto più un attore era simpatico e conosciuto o un cartone animato particolarmente suggestivo e divertente, tanto meno lo spettatore li associava al prodotto che gli inserzionisti volevano vendere. Così capitò, ad esempio, con i pupazzi conici Carmencita e Caballero o con gli sferici abitanti del pianeta Papalla, usciti dalla versatile matita di Armando Testa, i quali procurarono assai poca celebrità al caffè Lavazza e ai televisori Philco. In ogni caso, confortato da un successo inesauribile, nel gennaio del 1977 Carosello si dovette accomiatare dal pubblico italiano tra un coro di proteste. Infatti, quel programma aveva avuto il merito di far passare quasi inosservato il bombardamento pubblicitario a cui l’Italia era ormai sottoposta, mitigandone l’invadenza e l’invasività con l’ironia o con le capacità artistiche degli attori che vi si cimentarono. Certamente, il messaggio, di per sé, fu modernizzante: richiamandosi allo schema ‘trinitario’ della famiglia nucleare, ‘Carosello’ portò alla ribalta una mamma seducente che cucinava in quattro e quattr’otto grazie alla carne in scatola, un babbo stile ‘senior executive’ che si rilassava sorseggiando un aperitivo, un bebè che scorrazzava felice per casa infagottato nei suoi pannolini. Non mancarono, inoltre, le enunciazioni rassicuranti, le sfumature tradizionaliste o le proposte di consumo affette da effettivo ‘pentitismo’: si poteva benissimo mettere una ‘tigre nel motore’ e, allo stesso tempo, premunirsi contro il logorio della vita moderna bevendosi una bibita al carciofo. Oppure festeggiare brindando: “Oggigiorno, tutto è una lusinga, dura minga, dura no”! Infine, nel 1975, iniziò a fare capolino anche un genere pubblicitario maggiormente ‘hard’, allorquando apparse, per la prima volta, un cartellone pubblicitario della Jesus jeans in cui campeggiava un vezzoso sedere di donna con sopra lo slogan: “Chi mi ama, mi segua”.

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